Contemplando il lago d’Orta, Eugenio Montale vedeva «le Muse appollaiate sulla balaustrata…» (1975), e Gianni Rodari, descrivendo l’isoletta di San Giulio scostata dalla riva di Orta appena quel poco che basta per renderla autonoma, diceva che gli sembrava «fatta tutta a mano, come un gioco di costruzioni, metro per metro, secolo per secolo, dandosi il cambio uomini ed altri uomini…» (C’era due volte il barone Lamberto, Einaudi, Torino 1978).
Ciò che impressiona all’arrivo in questo angolo appartato del Piemonte è soprattutto il misterioso fascino che promana dalla sua dolce e insieme austera solitudine, che carpisce l’anima dandole lo struggimento di un inesprimibile sentimento tra lo stupore e lo sgomento, la gioia e la speranza. E questo sentimento è suscitato non solo dalla veramente incantevole bellezza naturale, ma anche – e forse ancor più – da quell’arcana atmosfera di antico che, tra storia e leggenda, trasuda dalle sue grigie pietre. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce materiali preistorici, che vi attestano la presenza umana già a partire da quattro o anche seimila anni avanti Cristo, inoltre tratti di muri antichissimi confermanti l’insediamento paleocristiano in questo piccolo scoglio destinato a divenire – attraverso molte vicissitudini – un castrum, una fortezza di carattere civile e insieme religioso.
L’arrivo di San Giulio, prete originario di Egina, isola del mare Egeo, avrebbe la sua conferma storica nel primo edificio absidato del iv-v secolo e in altri reperti di primaria importanza, quali le tarsie marmoree di alto pregio, che erano appunto in uso nel periodo in cui la corte imperiale si era insediata a Milano (dal 286 al 402) e in quello immediatamente successivo (v-vi sec.). Molto significativa al riguardo è anche la presenza di una lastra marmorea (cenotafio) con fini incisioni simboliche incentrate su una croce latina gemmata, sormontata dal chrismon e affiancata da palme e pavoni, simboli d’immortalità che rimandano ai modelli romani e ravennati diffusi tra il v e vi secolo (cf. Il cristianesimo a Novara e Territorio. Atti del Convegno 10 ottobre 1998, Interlinea, Novara 1999, pp. 83-103, passim). Infatti l’associazione del chrismon (segno di Cristo) con i pavoni e le palme, simboleggianti la vittoria di Cristo sulla morte e la risurrezione dei corpi, è una composizione iconografica funeraria che si giustifica egregiamente per una tomba molto venerata, quale poteva essere quella del Santo evangelizzatore che aveva portato la fede cristiana in questo territorio.
Ci si potrebbe chiedere: perché San Giulio, anziché fermarsi sulla Riviera, è approdato all’Isola, che, secondo la leggenda, era selvaggia e infestata di serpenti? Il motivo sta nel fatto che per gli antichi l’isola evocava il simbolismo del viaggio della vita, la navigazione sul fiume del tempo per approdare lontano da ogni insidia, nel luogo paradisiaco. San Giulio, infatti, raggiunta questa piccola isola emergente da un laghetto prealpino – anticamente denominato Cusius – la conquista, scacciando da essa il drago (simbolo del male) con il segno della croce, e proprio sulla sommità della roccia pianta il vessillo di Cristo (cf. Medioevo in cammino. L’Europa dei pellegrini, Orta San Giulio 1989).
Denominata con il nome del Santo, che su di essa visse pregando e da essa emigrò al Cielo, l’Isola San Giulio è divenuta il vero cuore della Riviera cusiana, riviera lussureggiante di alture boscose incoronate dalle bianche catene di monti innevati ed anche disseminata di antiche chiese e svettanti campanili.
Se in passato i poeti e gli artisti vedevano l’Isola San Giulio come “esitante fra acqua e cielo” e quasi in procinto di prendere il volo, visitandola e sostandovi in veglia di preghiera, San Carlo Borromeo la definiva “dormitorio dei Santi”. È infatti per aver accolto un’ininterrotta presenza di vita religiosa che essa è divenuta cuore pulsante e centro di irradiazione spirituale.
Chi vi approda oggi si trova davanti ad un invito tanto inconsueto quanto suadente: Ascolta il silenzio… L’invito al silenzio e alla meditazione accompagna chi percorre, nei due sensi opposti, l’unica stradina che circonda l’Isola come logora cintura di un abito tanto antico quanto pregiato. I pensieri tradotti in quattro lingue – che si susseguono su targhe apposte a lato – aiutano a interiorizzare le realtà della vita e a recepire il messaggio profondo e segreto della natura e della storia. Ma bisogna entrare nella basilica di struttura romanica (fatta risalire al iv-v secolo e poi ricostruita e ampliata tra i secoli ix-xii), per essere immediatamente afferrati dall’arcano fascino dell’arte e della storia lette in chiave autenticamente cristiana.
Meta di pellegrinaggi fin dal Medioevo, essendo situata sulla via francigena percorsa dai pellegrini verso Roma o verso Santiago di Compostela, essa offre all’attento visitatore di ogni tempo un ricco patrimonio di fede attraverso l’arte degli affreschi, nei quali schiere di Santi tradizionalmente venerati sembrano animarsi e mettersi in movimento verso chi li invoca: San Giulio, San Giacomo, San Rocco, Sant’Antonio abate, San Cristoforo, San Martino, San Sebastiano, San Biagio, Santa Caterina martire, Sant’Apollonia, San Donnino, San Nicola e altri ancora… Tutti cari alla pietà popolare che vede in loro i compagni di viaggio e gli ausiliatori. Le mani devote che hanno affrescato le pareti – prevalentemente nei secoli xv-xvi – vi hanno messo l’impronta della loro fede e di quella dei committenti provenienti dalla Riviera, dal Vallese e da più lontane regioni; ma l’opera più impressionante per il vigoroso messaggio di fede che trasmette è l’ambone.
Scolpito in pietra scura (serpentino d’Oira) nel secolo xii, la sua maestosa e severa bellezza afferra sia il pensoso pellegrino che il distratto turista. Di struttura quadrangolare, simbolo della Gerusalemme celeste (cf. Ap. 21), con tre lunette sporgenti e balaustra decorata a foglie di acanto, poggia su quattro colonne a base attica – di cui due finemente scolpite e due lisce – culminanti in capitelli di stile composito, corinzio e dorico, diversi tra di loro. Le figure scolpite sulle lunette sporgenti costituiscono una catechesi per immagini: sul lato posteriore, rivolto simbolicamente a nord-ovest, si vedono il centauro in atto di scoccare la freccia e un cerbiatto stretto tra due fiere; seguono i simboli dei quattro evangelisti – l’angelo, il bue, il leone e l’aquila – e inoltre, quasi emergendo dal fondo di una lunga strada, la figura di un abate pellegrino. Si pensa, come vedremo, che possa rappresentare Guglielmo di Volpiano.
La simbologia descritta era certamente molto familiare ai fedeli e ai pellegrini del Medioevo, ma non è difficile nemmeno per noi vedere tratteggiato nell’iconografia dell’ambone della basilica di S. Giulio il cammino della vita. Infatti, nella selva della vita il cristiano (cerbiatto), insidiato dal centauro, ma nutrito e difeso dalla Parola di Dio (simboli degli evangelisti), sostiene sicuro la lotta contro il male (simboleggiato nel mostro marino, il leviatan), perché esso è già stato vinto da Cristo (simboleggiato nel grifone) (cf. B. Canestro Chiovenda, L’ambone dell’Isola di San Giulio, Del Turco, Roma 1955).
Ma torniamo al misterioso personaggio scolpito sull’ambone, cercando di leggere sulle scure pietre la storia che i secoli hanno consegnato al silenzio di questo luogo appartato, eppure per molti secoli fatto teatro di drammatiche vicende. Guglielmo, figlio di Roberto signore di Volpiano, capo delle milizie al servizio di Berengario i e della Regina Villa, nacque sull’Isola San Giulio durante l’assedio postovi dall’imperatore germanico Ottone i per sottrarla al potere civile e restituirla ai canonici della basilica stessa. Ne dà conferma la Bolla autografa conservata nell’archivio e datata il «29 luglio dell’anno dell’Incarnazione 962 e primo anno dell’Impero del “dominus” Ottone serenissimo augusto…». Il piccolo, nato in mezzo alle contese, divenne strumento di pace nel segno del santo Battesimo e da qui iniziò il suo itinerario di pellegrino di pace. Divenuto infatti monaco benedettino a Lucedio, presso Vercelli, dopo una sosta alla sacra di San Michele, sul monte Pirchiriano, seguì l’abate Maiolo a Cluny e, ancora giovanissimo eletto abate, percorse e ripercorse l’Europa dei pellegrini da Fécamp nella Francia settentrionale, al Gargano nell’Italia meridionale, quale instancabile fondatore e riformatore di monasteri. A motivo delle sue molte relazioni con chi teneva allora in mano le sorti dei popoli o guidava il cammino della Chiesa – re, principi, e vescovi – esercitò una notevole e benefica influenza su quell’Europa che era – come ancor oggi – in travaglio di assestamento e alla ricerca di unità e di stabilità nella pace.
Tra i molti monasteri affidati alla sua cura abbaziale, o da lui stesso fondati e persino costruiti (poiché era anche esperto in architettura!), c’è quello di Fruttuaria, nel Canavese; omaggio che certamente egli volle fare alla terra d’origine della sua famiglia. Ma è lecito pensare che Guglielmo non abbia trascurato nemmeno l’Isola San Giulio dov’era nato e aveva ricevuto il Battesimo. Infatti vi sono non poche tracce di elementi architettonici in comune con i sacri edifici da lui progettati in Francia che fanno pensare a qualche suo diretto o indiretto intervento. L’imponente torre campanaria dell’xi secolo – che qualcuno osa supporre da lui ideata – sembra quasi l’emblema della sua austera e insieme paternamente vigile presenza sull’Isola e su tutta la Riviera. Ma il seme della vita monastica benedettina che egli, sia pure inconsapevolmente, vi aveva depositato, vi è rimasto nascosto e si è conservato per un intero millennio prima di germinare e crescere come albero rigoglioso nell’ultimo scorcio di questo secolo che sta sfociando nel terzo millennio cristiano.
La presenza dell’abbazia benedettina Mater Ecclesiæ è ormai una realtà che non sfugge ai visitatori e ai pellegrini che approdano all’Isola San Giulio. Ed è lecito pensare che sia proprio questa presenza a creare e a custodire la mistica atmosfera di silenzio e di contemplazione che avvolge l’Isola e il suo lago. Raccogliendo come in una conchiglia le voci sommesse e tumultuose della storia, la comunità monastica le filtra facendole passare attraverso le voci pure della laus perennis, attraverso il canto di lode che unisce i cori dei pellegrinanti sulla terra a quelli dei già rimpatriati nella celeste Gerusalemme. Suscita così la nostalgia di quella bellezza spirituale che è fonte di vera consolazione per l’uomo del nostro tempo proteso verso il futuro come uno stanco viandante con la bisaccia piena soltanto di paure represse e di fragili speranze.
Per questo l’Isola San Giulio, quasi sospesa tra l’azzurro dell’acqua e del cielo, emana un fascino che non imprigiona i sensi, ma li trasfigura e libera lo spirito rendendolo capace di captare le vibrazioni segrete di una vita che pulsa nel silenzio, in umiltà, ed è generatrice di una vera – non utopica – civiltà d’amore in cui l’uomo viene ricuperato a se stesso e riportato all’altezza della sua soprannaturale dignità. L’Isola è così sempre più carica di quel potere evocativo che rimanda all’ultimo approdo dell’uomo e nel cuore di chi l’abita e l’ama, essa è accarezzata come il sogno più bello prima del risveglio nel mattino dell’eternità.