La nostra vocazione

Vita monastica:
umile cammino
nel sì di ogni giorno

Che cosa vi può essere di più dolce per noi
di questa voce del Signore che ci chiama?
Ecco, il Signore, nella sua grande bontà,
ci mostra il cammino della vita»
(RB Prologo 19-20)

La vita monastica è una risposta totalitaria alla chiamata di Dio, che suppone la capacità di partire per cercare Dio affidandosi al progetto che Egli ha su di noi. Chi intraprende la vita monastica deve lasciare il mondo e consegnarsi completamente al Signore, per imparare a servirlo all’interno di un monastero nella preghiera e nel lavoro e a cercarlo insieme con i fratelli nell’aiuto reciproco e nella carità vicendevole.

Non è quindi una scelta che si compie spinti esclusivamente dal desiderio della perfezione personale o dall’attrattiva per il silenzio, la solitudine o la bellezza della liturgia, ma sempre sotto l’impulso dello Spirito Santo, afferrati dall’amore per Cristo, in obbedienza alla volontà di Dio che invita alla sequela radicale abbandonando tutto il resto.

Nel discernimento delle vocazioni è proprio questo il punto capitale: capire se l’ispirazione viene da Dio. Non sono le attitudini personali e i doni di natura a rendere idonei alla vita monastica, ma le disposizioni interiori ad affidarsi al disegno di Dio e all’aiuto della sua grazia, perché la sua chiamata è sempre definitiva e senza ripensamenti.

Anche nei momenti di fatica, di prova o tentazione, per poter stare saldi ci si deve appoggiare alla sua fedeltà, rimanere stretti a lui che è una roccia eterna.

Preghiera e lavoro: un equilibrio che rende la vita piena e pacificata

I fratelli devono, in tempi determinati,
dedicarsi al lavoro manuale
e in altre ore alla lettura divina (RB 48,1)

Il monaco è un cristiano che si mette al servizio di Dio in tutto per collaborare con Lui e divenire strumento della sua opera di redenzione. Proprio a tale fine, san Benedetto imposta la vita monastica su un sapiente equilibrio tra preghiera e lavoro: quanto mai importante è la preghiera, ma determinante è anche il lavoro, perciò assolutamente nessuno deve stare in ozio.

L’uomo ha infatti ricevuto da Dio il comando di lavorare e ha ricevuto le facoltà da impegnare nel lavoro e nelle varie attività come collaborazione alla creazione stessa.
Abbiamo sempre bisogno di rimettere ordine nel nostro comportamento dando il giusto posto ai valori, cercando sempre di dare la precedenza a ciò che vale di più e che rende prezioso anche quello che vale meno. L’equilibrio è difficile, ma è possibile quando si accetta nella propria esistenza una norma fondamentale che è quella della ricerca di Dio che san Benedetto mette alla base della vita monastica: prima di tutto cercare Dio veramente e in tutto, cercarlo per amarlo, per servirlo, per glorificarlo cioè per rendergli grazie e gloria.

 

Cercare Dio non significa soltanto che il nostro pensiero sia rivolto a Lui e che ci dedichiamo a meditare la sua Parola, significa anche mettere Dio al primo posto in tutto quello che si fa e in ogni istante della propria vita, vivere alla sua presenza, essere veramente sempre intenti a Lui, perché, come Gesù affermava, «di una cosa sola c’è bisogno» (Lc 10,42).

Quindi, ci vuole una certa disciplina per tenere nell’ordine le nostre inclinazioni naturali: c’è chi è più portato all’attività, chi è più portato allo studio, a pensare, a riflettere, alle cose intellettuali; bisogna non eccedere né in un senso né nell’altro, perché il rischio è sempre quello di cercare se stessi e non Dio, o cercare qualcos’altro che non è Dio.

Preghiera e lavoro, se ben equilibrati, danno come risultato un uomo armoniosamente sviluppato, spiritualmente e anche manualmente. È quotidiana la costatazione che chi prega bene lavora anche bene e nel modo giusto, e chi lavora bene sa anche pregare bene e gustare la gioia di essere sempre, comunque, al servizio di Dio. Tutta la vita deve diventare una liturgia, celebrata alla presenza di Dio per rendergli gloria, «ut in omnibus glorificetur Deus… perché in tutto sia glorificato Dio» (1Pt 4,11).

Inoltre, è certamente vero che chi cerca la sapienza si eleva, ma è anche possibile, pur facendo qualunque tipo di lavoro cercare Dio. Tutto può diventare liturgia, culto offerto a Dio con le mani insieme con la mente e con il cuore, perché lo spirito di fede trasfigura e dà valore a tutte le cose. Tutta la nostra vita è una giornata di lavoro che consiste nel pregare e operare per giungere al beato riposo di quel “sabato senza sera” che il Signore ha promesso a quelli che sono fedeli al suo servizio, a quelli che comprendono di essere venuti nel mondo con una missione da compiere e desiderano portarla a termine in modo tale da potere dire: «Eccomi, Signore tutto è compiuto; ora mi consegno a te».

 

Abbazia Mater Ecclesiae La Basilica di San Giulio

Vivere nell'obbedienza
in unione a Cristo
in cui vi fu soltanto il sì

L’obbedienza immediata è propria di coloro
che ritengono di non avere assolutamente nulla
più caro di Cristo (RB 5,1-2)

Per il monaco fare quotidianamente la volontà di Dio non significa soltanto vivere le obbedienze ricevute durante la giornata, accogliere di buon grado le norme e le disposizioni o le indicazioni più specifiche che lo riguardano. Lungo il cammino e in maniera totale e definitiva con la professione acconsentiamo a sottomettere interamente la nostra vita e la nostra persona a Dio. Pertanto, tutto quello che costituisce il nostro modo di essere e di agire è sottoposto al suo volere in quella particolare situazione in cui ci ha chiamati a servirlo e a rispondere al suo disegno su di noi.

Il modello eccellente dell’obbedienza monastica è Gesù obbediente, perciò il centro della nostra vita è Lui. Il monaco sceglie di conformarsi a Gesù che è il Figlio obbediente in tutto, in piena sintonia con il Padre. La sua opera redentrice, infatti, non è altro che l’esecuzione, con amore, della volontà del Padre. Anche la nostra obbedienza non può essere che una espressione autentica dell’amore, una risposta totale all’amore che Dio ha dimostrato a noi in Cristo.

Non c’è una vera obbedienza al di fuori di questa: vi possono essere esecuzioni di ordini, consensi dati, ma la vera obbedienza nel senso teologico e cristiano, come atto che ha valore di redenzione, che esprime la carità e che rappresenta una risposta all’amore di Dio, è possibile solo in Cristo, unendosi alla sua obbedienza.

L’obbedienza impegna la volontà, ma soprattutto il cuore, poiché si tratta di corrispondenza all’amore di Dio; questo comporta che coltiviamo con tanta attenzione e delicatezza la libertà e la purezza di cuore.

Senza questi requisiti, infatti, l’obbedienza non ci può essere perché non c’è l’amore di Cristo. Non dimentichiamo però che l’amore di Cristo non è un sentimento, non consiste nel provare sensibilmente una certa dolcezza, un certo fervore che ci fa sentire a nostro agio.

La vera obbedienza, così come l’ha vissuta e insegnata Cristo sulla terra, è sacrificio, è volontà di bene, è desiderio di adesione alla volontà di Dio.
Dobbiamo essere certi che l’obbedienza è imparare a dire in qualsiasi situazione: «Per amore del Signore accetto come proveniente da Lui quello che mi viene chiesto». Si può trattare di un’obbedienza esplicita, quando mi viene assegnato un servizio o mi si dice di fare un lavoro in un certo modo; ma può anche essere un’obbedienza implicita quando in qualsiasi situazione, anche contrariante, so di essere chiamato a comportarmi secondo la Regola, secondo quanto so che il mio abate desidera per condurmi sulla via diritta del Vangelo, per indicarmi la via della santità.

L’obbedienza impegna la volontà, ma soprattutto il cuore, poiché si tratta di corrispondenza all’amore di Dio; questo comporta che coltiviamo con tanta attenzione e delicatezza la libertà e la purezza di cuore.

Senza questi requisiti, infatti, l’obbedienza non ci può essere perché non c’è l’amore di Cristo. Non dimentichiamo però che l’amore di Cristo non è un sentimento, non consiste nel provare sensibilmente una certa dolcezza, un certo fervore che ci fa sentire a nostro agio.

La vera obbedienza, così come l’ha vissuta e insegnata Cristo sulla terra, è sacrificio, è volontà di bene, è desiderio di adesione alla volontà di Dio.
Dobbiamo essere certi che l’obbedienza è imparare a dire in qualsiasi situazione: «Per amore del Signore accetto come proveniente da Lui quello che mi viene chiesto». Si può trattare di un’obbedienza esplicita, quando mi viene assegnato un servizio o mi si dice di fare un lavoro in un certo modo; ma può anche essere un’obbedienza implicita quando in qualsiasi situazione, anche contrariante, so di essere chiamato a comportarmi secondo la Regola, secondo quanto so che il mio abate desidera per condurmi sulla via diritta del Vangelo, per indicarmi la via della santità.

Parola e Silenzio:
colonne dell’edificio monastico

Ascolta, figlio, gli insegnamenti del tuo maestro,
apri docile il tuo cuore, accogli volentieri i consigli del tuo padre buono e impegnati con vigore a metterli in pratica (RB,1)

«Ascolta figlio »: con queste parole san Benedetto inizia la sua Regola delineando così, fin dalle primissime righe, quale debba essere l’atteggiamento fondamentale che deve permeare tutta la vita del monaco: l’ascolto obbediente.

Il cammino spirituale, infatti, per i cristiani in generale e per i monaci in particolare, parte sempre dall’ascolto il Signore, imparando progressivamente a riconoscere la sua voce come unica ed inconfondibile tra tutte le altre che risuonano intorno a noi.

Occorre quindi «aprire docili l’orecchio del nostro cuore», come suggerisce ancora lo stesso san Benedetto, prima di tutto alla Parola di Dio che, ascoltata e vissuta nella comunione della Chiesa, ci aiuta a fare luce sugli avvenimenti e sulle parole udite.

Inoltre, anche con l’aiuto del Padre Spirituale, si impara col tempo a discernere le diverse situazioni e ascoltare chi quotidianamente ci parla nel suo nome, facendosi strumento vivo del Signore e del suo disegno di Salvezza.

Per diventare davvero monaci unificati interiormente in Dio, occorre quindi desiderare un’esistenza tutta dedita all’ascolto della Parola di Dio e tutta sprofondata nella presenza del Signore in un’atmosfera di silenzio e di adorazione. Per il monaco il momento favorevole per coltivare questo incontro profondo con il Signore è rappresentato dal tempo della Lectio divina, che è la preghiera più intima, più personale.

Nella solitudine della propria cella, in ascolto del Signore che parla attraverso la sua Parola scritta, progressivamente s’impara ad incontrarsi con Lui nel silenzio della cella interiore, grazie alle suggestioni dello Spirito Santo, che permette di coglierne sfumature e significati immensi, mai scoperti prima.

Per questo il monaco, che vive il battesimo in modo radicale, si separa da tutto quello che è il peccato del mondo e diviene l’uomo dell’interiorità e del silenzio. Il silenzio, infatti, permette di ascoltare la Parola, di accoglierla, di nutrirsene e assimilarla, arrivando progressivamente a deporre davanti a Lui giudizi, pensieri, fantasie, e progetti che si possono avere in mente e che creano un forte “rumore di sottofondo”.

Il monaco dunque custodisce con cura e con amore la solitudine del cuore e il silenzio non certo perché sia spinto dal desiderio egoistico di conservare la propria tranquillità, ma al contrario perché è sollecitato dall’imperiosa necessità di poter adempiere i suoi compiti fondamentali che sono la lode divina, l’adorazione, la presenza a Dio per tutti, la preghiera incessante che dà voce a tutte le creature.

Una vita permeata di umiltà

Ascesi dunque tutti i gradi di umiltà,
il monaco perverrà a quell’amore di Dio che,
essendo perfetto, scaccia il timore (Rb 7,67)

L’umiltà costituisce la base del cammino del cristiano e ancora di più questo è vero per il monaco, chiamato a vivere in maniera radicale ed esemplare il Vangelo per diventare una fedele icona di Cristo. Non si può concepire una santità vera e una reale grandezza senza questo contrassegno, perché essere santi significa necessariamente dare gloria unicamente a Dio. Gesù stesso si è abbassato ed è sceso nella nostra miseria, si è fatto piccolo, umile, povero, debole, e noi non possiamo realizzare la nostra vocazione cristiana al di fuori di questo mistero.
Il Signore stesso però si impegna a renderci umili anche attraverso l’esperienza che ci fa fare della nostra debolezza e delle nostre fragilità; rendendoci realmente conto del nostro limite creaturale possiamo più facilmente evitare la tentazione e l’illusione di sentirci “qualcuno” e comprendere che la nostra completezza è solo nel Signore.

La disposizione, che sempre è richiesta, è quella di rinunciare a se stessi e di abbandonare l’uomo vecchio che è in noi offrendoci continuamente a Dio per essere trasformati nell’uomo nuovo. Lungo la nostra esistenza, tutto quello che accade attorno a noi, le varie situazioni e circostanze che si presentano e che possono essere contrarianti per la nostra natura, e anche le nostre stesse debolezze e fragilità, fanno parte di un progetto provvidenziale di Dio perché accettiamo di lasciarci plasmare, di lasciarci piegare, perché possiamo rimanere al nostro posto nella umiltà e nella gratitudine, pensando che non abbiamo diritto a niente e che tutto ci è dato gratuitamente.

Dobbiamo quindi amarci al di là di tutti quelli che sono i condizionamenti umani, superando ogni difficoltà e incomprensione e andando sempre oltre. Dobbiamo invece decidere ogni giorno di fare della nostra vita un servizio e un dono per tutti, perché vivere solo per noi stessi significherebbe morire in una bella prigione che ci siamo costruiti, mentre la vita è uscire, è andare per amore verso gli altri. E l’amore è vero quando è oblativo, quando è dono, quando si mette al servizio e si fa umile, si dona senza pretese ed è grato di tutto quello che riceve. Quando l’umiltà comincia ad abitare il nostro cuore, sempre più frequentemente ci accorgiamo di quello che riceviamo e diventiamo riconoscenti, abbiamo sulle nostre labbra il “grazie”, un grazie profondo e sincero per Dio e per i fratelli. L’umiltà manifesta sempre la potenza di Dio che si serve di ciò che è piccolo e debole per compiere le sue opere più grandi.

Vita fraterna,
arte del vivere
insieme

Essi si prevengano nello stimarsi a vicenda,
amino con cuore casto tutti i fratelli (RB 72,4.8)

In una comunità per vivere la realtà della comunione con Dio e con i fratelli, dobbiamo vivere non gli uni accostati agli altri, ma le une nelle altre. La pace di un corpo ben armonizzato, in cui ogni membro ha il suo posto e fa la sua funzione, è un corpo animato dallo Spirito Santo, dall’Amore.

Non si può però vivere la comunione vera se non c’è la donazione, la confidenza, l’affidamento gli uni agli altri e in particolare a chi ci guida nel nome del Signore. Cerchiamo quindi di avere sempre l’atteggiamento di piena apertura, di umile confidenza, per cui sono sempre allo scoperto sotto gli occhi dell’abate come sotto gli occhi del Signore, al di là delle parole. Se si fa comunione, tante cose si sciolgono, si semplificano, e viviamo nella serenità dello spirito.

Questo non vuol dire che non dovremo affrontare prove e sofferenze, ma potremo viverle bene, in un’ottica di fede e con quella forza interiore che ci viene proprio dal sentirsi uniti, dal sentirsi un cuor solo e un’anima sola sapendo portare anche le difficoltà e le debolezze nostre e degli altri.

Abbiamo in comune una sola fede, un solo Padre, un solo Salvatore, un solo Spirito, un solo battesimo, una sola speranza, un solo amore, una sola ragione di vita, una sola vocazione e siamo quindi una cosa sola. Se siamo contenti di questo e non cerchiamo nulla in privato, allora davvero siamo discepoli del Signore e lo sappiamo servire nella libertà e nella gioia, come a lui conviene.
Dobbiamo quindi sentirci chiamati alla santità e desiderosi di giungervi per vivere in comunione con Lui che è il Santo, ma sempre bisognosi di essere purificati per poterci avvicinare in modo degno.

La vita cenobitica secondo san Benedetto è proprio un cammino verso la pienezza dell’amore, un cammino fatto insieme seguendo Cristo che ci conduce al Padre nella comunione dell’amore che è lo Spirito Santo.

Quello che viviamo e sperimentiamo, quanto ci è dato per grazia di conoscere e vedere con gli occhi della fede, noi lo viviamo in comunione con la comunità monastica, per essere tutti insieme un segno e un annunzio per gli altri.

Più grande è la comunità e più forte è il segno, la testimonianza: ognuna di noi è chiamata a cooperare con tutte le forze – corrispondenti alla grazia di Dio – a formare questa comunione, così che la nostra vita sia davvero annunzio trasparente del disegno di Dio di radunare tutti gli uomini nella comunione.

Così deve essere vissuta la nostra vita, nel costante desiderio di rinnovare la nostra volontà libera e gioiosa di offrirci per tutti, di diventare comunità di fede, di amore e di testimonianza per l’incremento della fede e dell’amore di tutti gli uomini e per l’unione di tutti. È un cammino che comincia qui sulla terra, ma per arrivare a quella comunione eterna nel Signore che sarà veramente beata. Imparare pazientemente l’arte di far comunione: ecco la vera e bella avventura a cui il Signore ogni giorno ci chiama.

Voti Monastici:
la chiamata diventa vita vissuta

Il novizio che deve essere accolto
prometta nell’oratorio, alla presenza di tutti,
stabilità, conversione di vita e obbedienza (RB 58,17)

I voti religiosi si possono esprimere in modi diversi, a seconda delle diverse Famiglie o Congregazioni o Ordini, ma si riassumono sostanzialmente nell’offrire qualcosa in cambio di una grazia ricevuta. Quando si pronunciano i voti si esprime quindi la volontà suscitata da Dio stesso di offrirci, di espropriarci di noi stessi e di appartenere totalmente a lui.
I voti monastici, in particolare comprendono la stabilità (stabilitas), che indica la fedeltà, la volontà di rimanere nel Signore; la conversione di vita (conversio morum) in cui sono comprese la povertà e la castità; l’obbedienza (obœdientia), che richiede la consegna a Dio della propria volontà, per essere sempre liberi dalla schiavitù dei nostro “io”.

Più in particolare:
la stabilità, propria della Regola benedettina, impegna la monaca alla fedeltà incondizionata a Dio, accettando senza riserve il vincolo che la unisce definitivamente alla Comunità nella quale ha fatto la sua professione, per condividerne in tutto la vita; nessuna pianta infatti può fiorire e fruttificare se non è radicata in un luogo;

la conversione continua indica l’impegno personale nella lotta quotidiana per correggere i vizi e crescere nella virtù; significa tendere costantemente alla perfezione dell’umiltà nella vita monastica e alla totale instaurazione del Regno di Dio nella nostra anima e nel nostro corpo;

nell’obbedienza, infine, si realizza c’è la massima libertà, perché la nostra volontà viene a coincidere con quella di Dio che è sempre una volontà buona e di amore che dà vita. L’obbedienza monastica è pertanto la convinzione che quanto il superiore stabilisce è esattamente quello che Dio vuole da noi in quel determinato momento

Abbracciare la vita monastica significa, in definitiva, accettare di intraprendere un cammino di conversione del cuore per arrivare a cercare unicamente Dio: è un cammino che durerà per tutta la nostra vita, perché l’intera esistenza è sottoposta a prove e tentazioni. Si tratta di affrontare un lungo percorso che conoscerà tutte le asprezze del deserto, tutte le astuzie del maligno, tutta la miseria del cuore umano, tutta la fatica di una continua battaglia fra la luce e le tenebre, ma anche le meravigliose e impensabili risorse della grazia.

Attraverso questa fatica, infatti, ci avviciniamo sempre di più al Signore, partecipando al suo mistero pasquale: moriamo in lui per poi risorgere in lui.

Dobbiamo perciò fare in modo che tutte le nostre energie e potenzialità intellettive e affettive siano rivolte al Signore e insieme con lui, nel suo amore ardente, arrivino a tutti; diventiamo così veramente capaci di amare con il cuore di Cristo e non possiamo fare altro che il bene, perché tutto quello che procede da lui è buono e santo. Allora diventiamo desiderosi e anche impazienti di consumarci per gli altri, come egli stesso ha fatto e vuole fare anche attraverso di noi, chiedendo il nostro contributo per portare avanti l’edificazione del regno di Dio. Affrontiamo dunque ogni giorno tutte le fatiche che comporta l’essere con Gesù dei consacrati per la salvezza dei fratelli.

In questo modo realizziamo il capolavoro più bello della nostra vita, che diventa una cosa bella, preziosa e che dà gioia, perché nell’essere con Gesù e nell’operare con lui vi è il massimo della buona sorte.

Padre,
fatti voce di ogni creatura
che geme anelando alla piena liberazione
noi leviamo a Te le nostre braccia,
e preghiamo nel Nome del tuo Figlio.
Rendi preghiera tutta la nostra vita:
silenzio, adorazione, lode, canto,
perché in tutto Tu sia glorificato
e nessuno manchi al banchetto del Regno
dove Tu sazierai di gioia tutti i tuoi figli
che tornano a Te, mangiando un pane di lacrime,
insieme a Colui che li ha salvati.
Amen.

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