Si fa di ora in ora più evidente e drammatico, in questa sacra liturgia, lo scontro decisivo tra la luce e le tenebre; uno scontro immane in cui le tenebre sembrano prevalere, ma in realtà nello sforzo titanico di distruggere la Luce, esse rimangono distrutte. La morte ingoia il Cristo che è la Vita e ne rimane vinta.
Tutto quanto accade in questa fosca giornata deve colpirci profondamente, ma non sgomentarci, poiché sotto l’oscurità del male c’è già il chiarore di un’alba nuova, c’è la nuova Vita che preme. Perché questa Vita ci vivifichi, non dobbiamo, però, limitarci a guardare soltanto con gli occhi il dramma della Passione contemplandolo da lontano, come se si trattasse di uno spettacolo a noi estraneo, ma occorre lasciarci coinvolgere interiormente dagli eventi di cui si fa memoria, attraversare insieme con Gesù le tenebre, porre con fede i nostri piedi sulle sue orme: in una parola, vivere con costanza e «pazienza» (da «patire»), lasciandoci attraversare da tutto il suo dolore, affinché anche dal nostro cuore compunto possano sgorgare sorgenti d’acqua viva, effondersi raggi di luce.
Il Venerdì Santo nella Chiesa regna un clima di gravità e di sospensione. Le campane sono mute, gli altari sono spogli: sono denudati delle tovaglie e disadorni di fiori. Tutto è silenzio e squallore.
L’assemblea attende in silenzio, in atteggiamento umile e raccolto. Non è solo un silenzio esteriore, ma un silenzio del cuore, un silenzio liturgico pieno di attenzione e di dolore davanti alla realtà della morte di Cristo sulla croce; morte di cui siamo tutti responsabili a motivo dei nostri peccati.
I celebranti entrano semplicemente e si prostrano ai piedi dell’altare; anche l’assemblea si inginocchia. Segue un prolungato tempo di silenziosa preghiera. Poi chi presiede rivolge al Padre, a nome di tutti, un’accorata supplica, che inizia con una parola-chiave della Sacra Scrittura: «Ricordati!», che significa: «Guardaci con il cuore!»: «Ricordati, Padre, della tua misericordia; santifica e proteggi sempre questa tua famiglia, per la quale Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale».
La misericordia di Dio è lui stesso, il Misericordioso, che da secoli e secoli, di generazione in generazione, riversa sugli uomini il suo amore, e non verrà mai meno nella sua fedeltà. Questa «misericordia», che era fin dal principio, in quest’ora raggiunge il culmine della sua manifestazione: in un «folle» gesto d’amore il Padre ci dona il suo Figlio, immolandolo sulla croce per la nostra salvezza, per fare dell’umanità intera un’unica famiglia, per suggellare con il suo sangue la nuova ed eterna alleanza, secondo la fedeltà giurata ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.
La liturgia della Parola è tutta orientata alla solenne proclamazione o il solenne canto in gregoriano della «Passione di Gesù secondo l’evangelista Giovanni». Le sacre parole del Vangelo non sono una semplice narrazione di avvenimenti ormai lontani nel tempo e nello spazio, non sono soltanto una rievocazione che possa lasciarci comodi spettatori come a teatro, ma gocce di grazia, di fuoco e d’acqua viva che penetrando in noi vi operano misteriosamente una radicale trasformazione: vi bruciano ogni scoria di morta vegetazione e vi fanno spuntare nuovi germogli.
È davanti al tribunale della nostra coscienza che il Cristo, oggi, viene condotto e giudicato. Ma è della nostra vita che in tale processo si decide. È un evento da cui nessuno può stare fuori, perché vi siamo coinvolti da Gesù stesso che è morto per ognuno di noi.
Nel dramma – e il canto gregoriano lo fa emergere in modo toccante – le voci si intrecciano, ciascuna con il proprio timbro, inconfondibili.
C’è la «voce della folla»: voce alta, irruente, qualche volta frenetica, come quando nel pretorio si eccita e grida: «Tolle, tolle: crucifíge!», «Via, via, crocifiggilo!» (Gv 19,15), quasi impaziente di assistere al raccapricciante spettacolo.
C’è la «voce di Pilato», una voce controllata, quasi soffocata, ora inquieta e stizzosa, ora persino tremante di paura di fronte a quell’uomo – «Ecce homo» – che desiderava conoscere e che gli appare adesso così lontano, così velato di mistero, inafferrabile: «Tu sei re?… Perché non parli? Non sai che io ho il potere…?». Com’è ridicolo quell’«io» di un omiciattolo qual è Pilato di fronte all’«Io sono» che lo guarda in silenzio, serenamente, e certo anche pietosamente, misericordiosamente.
Poi c’è la «voce di Erode», una voce viscida, insinuante, voce di un uomo vizioso e falso…
C’è pure la «voce di Pietro»: impulsiva e timorosa, solo apparentemente sicura, quando nel cortile del pretorio, davanti alle insistenze della serva, afferma di non conoscere «quell’uomo». Di lui si sente però subito anche il pianto; un pianto incontenibile per il rimorso e il dolore cocente seguiti alla colpa, all’incredibile rinnegamento del suo Maestro.
La voce del narratore che guida tutta la scena è disadorna, piana, controllata nell’emozione, ma non scialba: una voce profonda che partecipa intensamente a tutto quello che avviene.
E c’è infine la «voce di Gesù», una voce inconfondibile, carica di «pathos», di dolore e di amore; una voce insieme umana e divina; una voce che mai nessuno potrà adeguatamente interpretare, ma che tutti possiamo percepire nell’intimo del cuore.
«Quem quæritis?», chi cercate? È la risposta che Gesù ripete due volte alle guardie andate ad arrestarlo nell’orto degli ulivi. «Quem quæritis?»: questo interrogativo è rivolto anche a tutti noi. Chi cerchiamo, accostandoci a lui? E perché lo cerchiamo? Per rispondere sinceramente occorre un coraggioso scandaglio nelle pieghe più segrete delle nostre “buone intenzioni”.
Ma è Gesù stesso che, dominando la situazione, ci dice in verità chi egli è: «Ego sum». È la chiara affermazione della sua identità; è il suo nome divino: Io sono Colui che sono. Chi resisterà davanti alla presenza del Dio trascendente? Le guardie rimasero come tramortite e caddero a terra.
Se noi sapessimo comprendere anche la risposta data da Gesù a Pilato quando gli chiede conto di quel che si dice di lui: «Regnum meum non est de hoc mundo», il mio regno non è di questo mondo. In questo punto la melodia presta alla voce di Gesù una gravità e una profondità impressionanti. Dopo aver detto che, se il suo regno fosse di questo mondo, potrebbe farsi difendere da un esercito invincibile, ribadisce con una fermezza irremovibile: «Ma il mio regno non è di quaggiù». Stupenda anche la melodia sulla dichiarazione inequivocabile circa la sua regalità: «Tu lo dici, io sono re: quia rex sum ego». Le note sono posate come solidi pilastri. Chi potrebbe ancora obiettare qualcosa? Le calunnie a suo riguardo sono ben poca cosa in confronto a quello che egli dice apertamente di se stesso.
Notiamo poi l’espressione accorata di Gesù quando, durante il processo, viene schiaffeggiato da una guardia: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, “perché mi percuoti?”». Sembra non vi sia altro modo per far prevalere la propria forza e per far sentire la propria presunta superiorità. Ma Gesù con il suo rimprovero ci impone un serio esame di coscienza.
Ma il momento forse più bello e più toccante è quello in cui Gesù, ormai esausto e prossimo a spirare, dalla croce si rivolge agli unici «suoi» che sono saliti con lui fino al Calvario: la Madre e il discepolo amato, Giovanni. Guardando la Madre, egli dice: «Donna, ecco il tuo figlio». E poi guardando Giovanni: «Figlio, ecco la tua Madre».
Su «mulier» le note indugiano come scaldandosi al cuore del Cristo; la melodia si fa dolce, profonda, si carica di amore. Sembra che tutta l’ammirazione e la tenerezza di Gesù verso sua Madre si concentri in questo estremo appello, in questo invito a prendersi cura del suo corpo esteso nel tempo e nello spazio: la Chiesa. E così pure tutto l’amore di Gesù verso il discepolo, verso tutti noi, è racchiuso nell’«Ecce Mater tua», ecco la tua Madre, che costituisce per noi una consegna irrevocabile e dolcissima.
Gesù mette l’umanità nelle braccia della Madre e la Madre nelle braccia dell’umanità, mentre il suo cuore, sincronizzato con il cuore del Padre, è tutto donato in quella suprema consegna di amore.
A noi nei riguardi di Gesù importano tante cose… non importanti: chi è il più grande nel suo regno; che cosa ne avremo dopo aver lasciato tutto per lui… A lui, nei nostri, importa una cosa sola: che abbiamo con lui lo stesso Padre e la stessa Madre. E dopo averci consegnato questo testamento d’amore, egli può spirare, non senza aver prima espresso un suo ultimo desiderio racchiuso nel grido: «Sítio», ho sete.
È sete di amore, sete di noi. Su quest’unica parola ci sono sei note, quattro concentrate nella sillaba centrale, che portano la voce alla massima elevazione per esprimere l’ardore del desiderio e poi lo smorzano ridiscendendo fino quasi a spegnersi, dando in tal modo il senso dell’arsura e dell’esaurirsi delle forze di Cristo. Nella sua arsura lo si lascia morire, sul soffio dell’ultima parola: «Consummátum est», tutto è compiuto. Tutto è compiuto e la nostra sorte è decisa, perché il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, nasce lì, ai piedi della Croce.
Ora rimane solo il gesto del totale abbandono: «Et inclináto cápite trádidit spíritum»; e, reclinato il capo, Gesù rese lo spirito.
A queste parole tutti – sacerdoti e assemblea – si prostrano e rimangono in profondo silenzio. È il momento in cui bisognerebbe davvero saper cogliere il senso di quanto è avvenuto e avviene ancora, coinvolgendo la nostra esistenza in modo irreversibile. Che io ci creda o non ci creda, che io lo voglia o non lo voglia, rimane per sempre il fatto che Gesù Cristo mi ha amato ed è morto in croce per me. Potrò andare alla ricerca di altre vie di salvezza, ma se non passo da questa via, se non guardo a Colui che i miei peccati hanno trafitto, non avrò che amarezza e delusione.
Lì, ai piedi della croce che l’ha generata, la Chiesa, portatrice del mistero materno di Maria, raccoglie tutti i suoi figli e insegna loro ad aprire le braccia per essere con Cristo una supplica al Padre celeste in favore di tutti gli uomini, a cominciare da se stessi, poveri e peccatori.
Unanime sale al cielo la grande «Preghiera di intercessione». Essa è tutta appoggiata sulla certezza di fede che il Cristo, avendo dato tutto se stesso, avendo versato tutto il suo sangue per noi, sta davanti al Padre come nostro stesso intercessore.
Si invoca su tutti i membri della Chiesa, sparsa nel mondo intero, la divina effusione della grazia, perché possano crescere in santità e servire Dio nella fedeltà e nell’amore; si prega per il Papa, per i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, per tutti i fedeli, per i catecumeni. Si prega per l’unità del gregge, unità che è stata il desiderio più ardente del Pastore; si prega per i nostri fratelli ebrei, per i non cristiani, per coloro che non credono in Dio, per i governanti, per i poveri e i tribolati. L’abbraccio spirituale della Chiesa raggiunge tutte le pecore che sono disperse fuori dell’ovile o che non conoscono ancora la voce del Pastore. Non c’è uomo sulla terra che in quest’ora sia realmente solo o dimenticato: nessuno, proprio nessuno rimane escluso. Tutti sono là raccolti nell’amore di Cristo e della Chiesa in quest’ora di grazia in cui il Padre ci dona il Figlio ricordandosi della sua misericordia.
Alla preghiera universale segue la solenne «presentazione e adorazione del legno della Croce», segno della nostra salvezza. È questo uno dei momenti più suggestivi della liturgia del Venerdì Santo.
I sacerdoti e i diaconi avviano la processione lungo la quale la croce viene elevata e presentata cantando per tre volte, in tono sempre più alto, l’antifona «Ecce lignum Crucis», ecco il legno della Croce a cui fu appeso Cristo salvatore del mondo: venite, adoriamo.
Giunti davanti all’altare, la sostengono mentre i fedeli sfilano davanti ad essa, si prostrano in adorazione e la baciano. La croce è infatti il glorioso vessillo della vittoria di Cristo sulla morte. Il verbo «adorare» – che deriva da «ad os»: «accostare alla bocca», «baciare» – è veramente il più idoneo ad esprimere questo gesto di culto. Che cosa potrebbe meritare la nostra adorazione più di Cristo crocifisso? Il segno della croce è stato impresso in noi con il Battesimo, è il segno della nostra identità di cristiani, di figli di Dio. Non deve perciò essere soltanto guardato come qualcosa che sta all’esterno, davanti a noi, ma deve essere sentito come una viva realtà che portiamo nel cuore, una presenza che abbraccia e penetra l’intera nostra esistenza. Tutto ciò che ogni giorno ci fa morire al nostro «io» superbo è croce; abbracciarla significa accettare di morire all’uomo vecchio per risorgere come creature nuove.
Durante l’adorazione della Croce, vengono cantati gli «Improperi», i lamenti di Dio verso il suo popolo, quel popolo che, scelto, eletto con predilezione, non ha corrisposto al suo amore. Essi vengono ora riferiti a Gesù. I rimproveri si susseguono, incalzanti, uno dopo l’altro, ma nulla in essi vi è di aspro: si avvertono invece accenti di struggente tenerezza insieme ad intenso dolore. Si sente la voce sofferente del Cristo che dalla croce tende verso il suo popolo – verso di noi – le mani forate dai chiodi e piagate dicendo: «Popolo mio, che male ti ho fatto? In che cosa ti ho contristato? Rispondimi!».
Alla voce dell’amore ferito viene data la risposta riparatrice: «Crucem tuam adorámus, Dómine», adoriamo la tua Croce, Signore, lodiamo e glorifichiamo la tua santa risurrezione. Per mezzo del legno della Croce, la gioia ha riempito l’universo.
Proprio il Venerdì santo ci porta la gioia! L’ora del Venerdì Santo è veramente l’ora solenne del mistero della fede e della pietà. La Chiesa cerca di esprimere la propria immensa riconoscenza verso Colui che l’ha amata fino al punto di immolarsi per lei; sul Calvario essa riconosce perciò il luogo della propria nascita e insieme delle proprie nozze. Sa di essere nata dal sangue sgorgato dal costato di Cristo aperto dalla lancia, dalla lancia vibrata non solo dal soldato, ma anche da ciascuno di noi, e sa di essere chiamata ad essere «con-sorte» del Crocifisso, per generare nello Spirito altri figli di Dio.
Ad ogni Pasqua, ad ogni Venerdì santo, la Chiesa ritrova la propria infanzia e la propria giovinezza; non commemora quegli eventi come una persona anziana rievoca con nostalgia i suoi «bei tempi» ormai lontani. No, essa nasce di nuovo e nuovamente, nel fiore della sua giovinezza, celebra le sue nozze d’amore con il Cristo. Essa si ritrova tutta bella, santa e fedele come lo era sul Calvario, in Maria e Giovanni, primizie che allora già la rappresentavano tutta intera.
Dopo la contemplazione e l’adorazione della Croce, si passa alla terza parte della Celebrazione consistente nel breve rito della recita del «Padre nostro» e nella santa Comunione.
La famiglia di Dio lì radunata tende le braccia al Padre insieme con il Cristo che le tiene aperte sulla croce. È grazie a lui che anche noi possiamo dire «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…».
Ecco, davvero, Padre, ora la tua volontà si è compiuta, nel tuo Cristo! Perciò noi possiamo con fiducia domandarti tutto quello che ci è necessario per compiere il nostro pellegrinaggio fino a quando non saremo tutti introdotti nella tua casa, nella tua santa, eterna dimora. Mediante la morte del tuo Figlio amatissimo è stata data la vita a noi quali tuoi figli. Siamo diventati con lui un solo corpo, quindi come un solo corpo ci rivolgiamo a te, Padre, nell’unico spirito filiale che Gesù ci ha dato spirando nelle tue mani sul duro legno della croce.
Ecco il senso della Comunione sacramentale che si fa il venerdì santo con il pane eucaristico consacrato il giorno precedente, nella «Messa in Cena Domini». Il momento della Comunione è avvolto di profondo e prolungato silenzio. Gli animi entrano così nel clima di attesa del grande evento della risurrezione. Tutta la creazione partecipa di questo profondo, religioso silenzio, che è come un respirare nel respiro di Dio, un attendere nella pazienza che tutto ancora si risvegli e ricominci a vivere e a cantare. È la consegna del Venerdì Santo, che dovrà essere custodita fino alla notte della grande veglia pasquale.
Prima di congedare l’assemblea, il sacerdote che presiede recita però una vibrante preghiera di benedizione: «O Padre, scenda la tua benedizione su questo popolo che ha commemorato la morte del tuo Figlio nella speranza di risorgere con lui. Venga il perdono e la consolazione, si accresca la fede, si rafforzi la certezza nella redenzione eterna».
E così si conclude la celebrazione: senza canto, senza suono, ma lasciando il cuore ricolmo di tutti i sentimenti che la Passione del Signore contemplata e rivissuta ha suscitato in noi, protagonisti dell’«oggi» della storia di salvezza.
O Cristo,
stendendo le tue mani sulla croce,
hai riempito il mondo della tenerezza del Padre.
Per questo noi intoniamo a Te
un canto di vittoria.
Ti sei lasciato appendere alla croce
per effondere su tutti
la luce del perdono,
e dal tuo petto squarciato
fluiscono verso di noi
le onde della vita.
O Cristo, amore crocifisso
fino alla fine del mondo
nelle membra del tuo corpo,
fa’ che sappiamo oggi comunicare
alla tua passione e alla tua morte
per gustare la tua gloria di Risorto.
Amen.