Perché? È una domanda che affiora sulle labbra umane dalla più tenera infanzia. È la domanda stupita del bambino che si apre alla vita, è la domanda del giovane che cerca il senso della vita e ne vuole scandagliare il mistero, ma è anche la domanda pensosa dell’adulto davanti ai problemi della vita, ed è soprattutto il grido dei cuori angosciati, turbati di fronte alle grandi sofferenze, alle tragedie della storia o alle catastrofi naturali; è la domanda del credente quando la luce della fede sembra soffocata dalle tenebre di una notte oscura e senza stelle. È – osiamo dire – il gemito dello Spirito in noi, perché questa domanda attraversa l’intera storia della salvezza e, al di là di ogni sentimento e pensiero, non ferma il cammino dell’uomo, ma lo spinge ad andare oltre: oltre l’evidenza dei fatti, oltre i brucianti fallimenti, oltre la pretesa del proprio sapere, oltre gli ostacoli: oltre, con umiltà e coraggio, fino ad una totale consegna di sé al Mistero, a Dio.
Perché? È la domanda che dà dignità all’essere umano e fa di lui un profeta, una sentinella nella notte del mondo: fa di lui l’uomo per gli altri, che non teme di rivolgere a Dio la sua domanda angosciosa, sapendo che è la domanda di tutti, una domanda che attende risposta, e una risposta non vana.
«Fino a quando, Signore,
– grida il profeta Abacuc –
implorerò e non ascolti,
a te alzerò il grido: “Violenza!”
e non soccorri?
Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?…
Tu dagli occhi così puri
che non puoi vedere il male
e non puoi guardare l’iniquità,
perché, vedendo i malvagi, taci
mentre l’empio ingoia il giusto?» (Ab 1,2-3.13).
Il profeta, da vero intercessore, “provoca” Dio, lo chiama in causa, gli pone davanti la realtà dei fatti, e, non nascondendo il suo sconcerto, gli chiede di “giustificare” il suo inconcepibile modo di agire, pronto ad affrontare a viso aperto il “suo” Dio. Perché sopporti tutto questo? Che cosa rispondi al nostro grido? Non ti importa di noi?
Il Signore risponde al suo profeta, ma non dà una risposta facile, che appiani la via e tolga gli ostacoli.
«Scrivi la visione
e incidila bene sulle tavolette
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indugia, attendila,
perché certo verrà e non tarderà».
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede (Ab 2,2-4).
Il Signore chiede di saper attendere nella pazienza, di resistere nella prova per ricevere – a suo tempo – grazia e consolazione. Egli dice al profeta che la prova – la sofferenza, il dolore – non è per la morte, ma per la vita: una vita in pienezza, stabilita per sempre nell’amore.
Ho letto recentemente un libro molto interessante – Quando finirà la sofferenza? – che raccoglie lettere e poesie scritte da una ebrea (Ilse Weber) nata in Cecoslovacchia e morta ad Auschwitz. Questa giovane, donna sposata con due bambini, si trova a vivere la tragedia della shoà. Già nel 1938 scriveva ad un’amica: «Fino ad oggi ho creduto in Dio, ma se non darà in breve tempo la dimostrazione della sua esistenza, non potrò più crederci. Questa persecuzione degli Ebrei è disumana… Siamo tutti tanto disperati…»
Poi durante la detenzione il suo animo sensibilissimo espresse i sentimenti di tutto il suo popolo atrocemente provato. Tra le tante pagine che potrei citare, scelgo alcuni versi tratti dalle poesie ritrovate in un capanno del lager:
«Non abbiamo nessuna patria,
non troviamo pace da nessuna parte…
Disprezzati ed evitati,
indifesi, soffriamo in silenzio,
in nessun porto ci attende la pace –
Perché, o Dio, perché?
Porgici, o cielo,
la tua mano benevola…» (p. 166)
E ancora:
Quando ci redimerai, o Signore,
dal peso malvagio del tempo,
quando vendicherai il sangue innocente?
Il nostro popolo non deve morire…
Sì, con forte battito d’ali
ci riporterai alla libertà… (p. 236)
Il grido di Ilse Weber fu soffocato – così sembra allo sguardo umano – nel forno crematorio insieme a quello di uno dei suoi bambini. Ma, per fede, noi crediamo che quel grido fu un tutt’uno con il grido di Cristo Crocifisso e così giunse al cuore del Padre.
Per quanti popoli, per quante famiglie e singole persone si potrebbe oggi scrivere un libro con lo stesso titolo… Quando finirà la sofferenza? Perché tanto soffrire?
A queste domande molte altre se ne potrebbero aggiungere, perché senza numero sono le gamme del dolore e ogni persona che soffre dà una voce diversa al suo dolore, all’universale soffrire.
Ho ancora vivo nel ricordo uno spettacolo molto significativo che una singolare compagnia teatrale del Piccolo Cottolengo di Torino, l’Associazione Outsider, composta di sordomuti, ciechi e portatori di altri handicap psicofisici, ha voluto offrire alla nostra comunità monastica, proprio in segno di comunione. In un angolo del chiostro rappresentarono varie categorie di “ultimi” della nostra società (alienati mentali, drogati, alcoolizzati, prostitute, barboni ecc). Uno di questi personaggi – una donna – attraversò lentamente la scena tenendo un dito sul naso e ripetendo con voce sempre più accorata: «Chi sono io? Chi sono io? Io chi sono?…», fino a dare il senso di un totale smarrimento. Nessuna risposta. E scomparve dietro la tenda.
Pochi giorni dopo mi trovai – cosa assai insolita per una claustrale – all’aeroporto della Malpensa e poi in quello di Palermo, in mezzo ad una folla concitata, affannata, o svagata e come smarrita; guardando a tutti quei volti tesi, quelle espressioni apatiche o angosciate, mi sembrò di vedere moltiplicata nella realtà che avevo davanti la scena della rappresentazione. Ognuno sembrava dire: «Chi sono io, chi sono io?…». Ognuno era un mistero… Tutti erano carichi di bagagli materiali, ma ancor più carichi di bagagli morali. Ed io ero lì vestita da monaca con in mano il libro della Liturgia delle Ore che ogni tanto aprivo per pregare, quasi volendo ripercorrerlo tutto; diversissima in mezzo a tutti loro così “diversi”, anch’io mi sono chiesta: «Chi sono io? Chi sono io… per loro?». Ecco, quel libro di preghiera – oltre l’abito – indicava la mia identità. Con tutta sicurezza mi è venuta la risposta: «Io sono preghiera per loro, con loro». In quel libro che stringevo tra le mani c’era espressa la mia identità, la mia appartenenza a Dio, e mi sembrava che insieme ad esso avevo con me il mio monastero, la comunità, tutta la Chiesa. In quel libro della Liturgia delle Ore era racchiuso tutto il mistero della salvezza, che è mistero di Passione, morte e risurrezione. Pregarlo, viverlo è entrare in comunione con Gesù. Da quando sulla Croce, Egli ha gridato il suo e nostro dolore e in questo dolore ha consegnato se stesso per amore, la sofferenza – tutta la sofferenza – è stata trasfigurata, le è stato dato un senso, un fine. È diventata travaglio di vita nuova. Dopo il grido della disperazione, Gesù dice: «Ho sete». Sete di che cosa? Sete di vita, sete di vivere nel Padre, sete di dare all’umanità l’acqua che zampilla per la vita eterna, di offrire il perdono che riconcilia, di aprire le porte del cielo ai peccatori perdonati, di consegnare la Madre perché nessuno si senta orfano nel terreno pellegrinaggio. Travaglio e fecondità del dolore.
Per questo bisogna imparare a stare saldi nella prova, come Maria ai piedi della Croce, tenere duro, resistere; non dire: «Non credo più», ma: «Credo di più; credo per me, credo per tutti, per supplire ai vuoti di fede, per sostenere i cuori vacillanti», per essere accanto a tutti buoni Cirenei.
Alla domanda rivolta al cardinale slovacco Ján Korec su che cosa avesse maggiormente arricchito la sua esperienza sacerdotale, egli rispose: «Potrei oggi dire – dopo cinquant’anni – che mi ha arricchito più di tutto la persecuzione. Esistono situazioni che ci purificano, ci rendono più umili, ci aprono al mistero della vita e ci avvicinano a Dio. Lui ci fa avvicinare a sé in quei momenti. Esiste una sofferenza purificatrice che diventa per noi benedizione».
Sì, esiste una benedizione nella e della sofferenza. Ma non lo si può dire a parole. Alla sofferenza si addice il silenzio. Silenzio di umiltà di fronte ad un mistero che ci supera infinitamente; silenzio di compassione che si fa uno con chi soffre; silenzio di fede che getta nel Signore il proprio affanno… Nel suo misterioso disegno di salvezza, il Signore vuole aver bisogno anche della nostra sofferenza, chicco di grano chiamato a diventare spiga. Ciascuno di noi ha una porzione di sofferenza che dovrebbe saper vivere con innocenza, cioè con mitezza, con umiltà, con l’intenzione di unirsi a Cristo, a quel Bambino venuto per essere immolato, a quell’Uomo che muore sulla Croce abbandonandosi alle mani del Padre come ritornato bambino nella greppia di Betlemme.
Mi piange nel cuore
il dolore di ogni creatura,
il dolore dei piccoli
nella fatica del crescere,
il dolore dei grandi
nella fatica del vivere,
il dolore degli anziani
nella fatica del morire.
Tutto è gemito e lacrime
tutto mi suscita compassione.
Signore, tu che ci ami
perché ci lasci soffrire?
Sì, lo so, guardandomi dalla croce
Tu mi rispondi:
«La gioia più vera
fiorisce sull’albero del dolore».
Anna Maria Cànopi
in Luoghi dell’infinito – novembre 2020
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