Monaco, uomo di speranza
Febbraio 6, 2021 | 12:00 am
Voler spiegare che cosa è la speranza è un po’ come voler capire e spiegare nel freddo invernale che cosa è una gemma primaverile, quando la vita urge nel tronco, nel ramo, o che cosa è lo sbocciare di un fiore, ossia capire il mistero della vita, sia a livello creaturale sia anche ad un livello più profondo.
Gesù un giorno disse questa breve, ma profonda parabola:
«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga».
(Da una riflessione di p. Pelagio Visentin osb)
Voler spiegare che cosa è la speranza è un po’ come voler capire e spiegare nel freddo invernale che cosa è una gemma primaverile, quando la vita urge nel tronco, nel ramo, o che cosa è lo sbocciare di un fiore, ossia capire il mistero della vita, sia a livello creaturale sia anche ad un livello più profondo.
Ogni uomo porta in sé una speranza. Pensiamo alle varie fasi della vita; pensiamo al bambino, pensiamo alla giovinezza; pensiamo anche all’adulto, al contadino che getta il seme nella speranza; pensiamo al malato che spera di guarire. L’uomo è nato per la speranza. Ma perché l’uomo spera sempre? Il discorso si farebbe lungo. Diciamo che noi viviamo nello scorrere del tempo e ci realizziamo gradualmente, un po’ alla volta.
Con il Battesimo sono infuse nei cuori dei cristiani la fede, la speranza e la carità. Di queste tre virtù, la speranza, forse, è quella più dimenticata, anche perché è una virtù difficile: difficile parlarne, ma difficile soprattutto viverla.
Dio agisce sempre così: inizia umilmente, da un piccolo seme, e poi il suo dono si sviluppa, deve svilupparsi sempre più. Tutto è già in germe, ma poi abbisogna di un dinamismo vitale per crescere fino alla piena maturità.
C’è un plus che deriva direttamente dall’azione di Dio, c’è qualcosa che non è a misura delle possibilità dell’uomo, ma del possibile di Dio. Nasce qualcosa di grande, di nuovo; nasce una nuova speranza che si fonda precisamente non più su quello che io posso raggiungere o conquistare da me, ma su quello che è dono di Dio, su quello che Dio fa e farà in me. La speranza del cristiano, dunque, guarda al possibile di Dio, che è insieme potenza infinita e infinito amore.
Adesso vorrei portare l’attenzione proprio sulla figura di san Benedetto, perché egli ha vissuto la speranza. Dice san Gregorio Magno che «lasciò» la casa di suo padre.
San Benedetto esce dalla sua famiglia, dal suo ambiente, dal mondo della sua prima giovinezza; lascia Roma, lascia gli studi.
Si allontana da tutto, va “oltre”, guarda al futuro. E ci voleva una speranza eroica per compiere questo passo nella prima giovinezza.
Che cosa trova a Subiaco? San Gregorio Magno lo dice concisamente in due frasi divenute famose: san Benedetto ha imparato ad abitare con se stesso, sotto lo sguardo di Dio, «habitare secum», «soli Deo placere desiderans», desiderando di piacere a Dio solo. Ecco l’unica meta che si prefiggeva.
Quando lasciò Roma per ritirarsi a Subiaco, Benedetto non sapeva niente del suo futuro, come Abramo quando uscì da Carran.
Nella solitudine di Subiaco incomincia per il Santo di Norcia una vita dura, ma Benedetto esce vittorioso dalla prova; delusioni e fallimenti si susseguono, ma egli non si scoraggia per questo.
Molto altro si potrebbe aggiungere, ma andiamo subito agli ultimi avvenimenti della sua vita quando Dio gli concede un dono singolare facendogli vedere in un raggio di luce il mondo intero, la storia intera. Ecco, san Benedetto, illuminato dallo Spirito Santo, è veramente l’uomo che non vive immerso nel contingente, nel provvisorio, ma che sempre sa puntare lo sguardo su orizzonti che non finiscono mai: è proprio la speranza cristiana nella sua pienezza.
Per questo nella sua Regola egli mira ad imprimere nella vita del monaco – e anche del cristiano – questo dinamismo vitale, questa virtù della speranza che è proprio quella che allarga il cuore, che ci impedisce di rinchiuderci in noi stessi, nel nostro piccolo “io” e ci fa invece respirare l’aria delle vette, sa aprire il nostro orizzonte verso le possibilità di Dio, e non verso le nostre possibilità, che sono molto limitate.
Chi si affida alla Parola di Dio, alla chiamata di Dio, sa anche aprirsi, sa diventare poi un collaboratore del regno di Dio.
La vita monastica richiede certamente il coraggio della fede e della speranza.
Il “quærere Deum”– famosa, felice espressione di san Benedetto, che indica il movente per cui il monaco inizia il suo cammino – presuppone il credere e lo sperare in Dio. Non si muoverebbe nessun passo alla ricerca di Dio se non ci fosse la speranza, se la voce del Signore, che risuona così dolce nell’intimo, non avesse infuso questa speranza.
Io penso che tra gli “strumenti delle buone opere”, ce n’è uno che può benissimo definire il monaco: «Spem suam Deo committere»: il monaco è colui che mette tutta la sua speranza in Dio e non cerca altro.
E difatti, proprio nel momento della sua professione con i voti solenni, pubblici, san Benedetto fa cantare per tre volte al professando un versetto del salmo 118: «Suscipe me, Domine, secundum eloquium tuum, et vivam, et non confundas me ab expectatione mea». “Suscipere” è il gesto di una mamma, di un papà che prende in braccio il suo bambino, il quale si affida completamente. Così Simeone prende in braccio Gesù Bambino portato al tempio.
Ebbene, quel “suscipe me” vuol dire mettersi interamente nelle mani di Dio. Il monaco è colui che ha posto tutta la sua speranza in Dio, fa quel passo non contando sulle sue forze, ma ancorandosi a Dio.
La professione monastica, però, non è soltanto un atto interiore con cui il monaco si affida, si consegna a Dio; è anche l’atto con cui egli, entrando in una comunità concreta, si affida pure all’abate e ai fratelli.
Il monaco non va a Dio per sue strade mistiche, ma attraverso una via molto concreta; perciò sceglie una comunità, desidera avere una guida, un padre, una madre. Chi volesse saltare queste mediazioni, sarebbe solo un illuso.
C’è un altro termine, molto espressivo, che ricorre spesso nella Regola, una parola che piace molto a san Benedetto: sollecitudine. La raccomanda a tutti. Il monastero è proprio il luogo in cui dovrebbe esserci questa sollecitudine reciproca, sia all’interno, gli uni verso gli altri, sia verso coloro che si presentano alla porta del monastero: gli ospiti, i pellegrini, i poveri.
Tutto nel monastero va compiuto con questo senso di sollecitudine, tutto è caratterizzato da questo atteggiamento interiore. Non siamo nel legalismo, nella disciplina da caserma; i monaci sono veramente persone che hanno seguito la voce del Signore; nella loro vita tutto parte dall’amore e risponde all’amore. La sollecitudine – come anche il “currere”, verbo caro a san Benedetto – è l’antitesi perfetta dell’accidia, della pigrizia, del compromesso, delle mezze misure. Per questo san Benedetto dice che la speranza, la fiducia in Dio, non deve venire mai meno, neanche nel momento della prova, della sofferenza.
È la pagina meravigliosa del quarto grado dell’umiltà, quando, il monaco, pur trovandosi di fronte a qualcosa di molto duro e contrariante per la natura, abbraccia la pazienza con maturo e consapevole silenzio interiore» .
La pazienza va abbracciata; non ci si limita a tollerare rassegnati. È difficile il silenzio interiore; è difficile in certi momenti far tacere la voce della ragione: «Ho ragione io!…».
Ecco, durante qualunque prova o sofferenza, i monaci sono capaci di rimanere fermi, saldi, perché hanno messo una volta per sempre la loro speranza in Dio. E perciò, ecco l’esortazione: tenga duro, non venga meno, non si tiri indietro. È il coraggio, direi quasi la violenza, propria della speranza.
Ma c’è ancora di più. La Regola ci ricorda anche che Dio stesso aspetta, ha speranza verso di noi. Ci aspetta di giorno in giorno, ci dà il tempo, gli anni: ha fiducia; non cessa di amarci e di attirarci a sé con la sua grazia misteriosa, ma reale.