Lo stupore del Natale è il discendere di Dio verso la nostra povertà, anzi, il suo entrare nella nostra povertà, assumendola, rivestendosene.
La bella colletta del giorno di Natale racchiude, nella sua sobria compiutezza, tutto il mistero dell’Incarnazione, contemplato dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, visto dall’eternità e accolto nel tempo, espressione di pura grazia e chiamata ad una inaudita rinascita: germoglio primaverile nel cuore dell’inverno:
Di fronte a questo inconcepibile dono che scende a noi dall’alto, comprendiamo bene perché sia nata la consuetudine di scambiarsi gli auguri, di offrirsi dei doni a Natale: è una bella consuetudine, se intesa e vissuta nel senso giusto, nel suo significato religioso, sacro.
Quando nasce un bambino sempre ci si congratula con la madre, ci si rallegra e si desidera per quel bambino un futuro di bene. I pastori – gli “ultimi” – sono stati i primi a congratularsi con Maria e ad augurare a quel Bambino di crescere sano, buono e bello. Anche noi, con loro, ci vogliamo congratulare con Maria per la nascita di Gesù. E non dobbiamo fare nessun sforzo di immaginazione, non dobbiamo andare con la fantasia o con i sentimenti lontano nel tempo e nello spazio.
L’evento accade, oggi, per noi.
La grotta di Betlemme è la Chiesa, la greppia l’altare. Ci congratuliamo, dunque, con la Chiesa che, come Maria, è Vergine e Madre. Una Chiesa viva, che abbraccia l’intera umanità. Natale, allora, è Cristo che nasce in noi, in ciascuno di noi, investendoci di una maternità universale. Conosci, cristiano, la tua dignità, dice a noi san Leone Magno. E sant’Agostino ci invita alla gioia:
Esultate… Se ricordate le parole di Cristo – e non potete non ricordarle – anche voi siete sue madri, perché fate la volontà del Padre suo. Ha detto infatti: chiunque fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello, sorella e madre.
Com’è tutto semplice, per chi è semplice!
Generato dall’eternità nel seno del Padre, nasce il Bambino di Betlemme nel cuore della notte: mistero della grazia divina che si china sull’umana miseria. Ma nascere non gli basta, Egli vuole crescere. L’evento della Notte Santa apre un tempo nuovo, apre davanti a noi un nuovo cammino, meglio, ci troviamo davanti a una scelta.
Vogliamo che questo Bambino, venuto alla luce, cresca fino alla sua piena statura? Vogliamo che questo Bambino sia la vita della nostra vita? Vogliamo accogliere il dono e farne la nostra gioia, la nostra speranza, il nostro nuovo inizio?
Qui occorre il nostro sì, il nostro eccomi, la nostra piena disponibilità, legata ad una promessa: ogni bambino che nasce fa rinascere e ogni persona che rinasce è un seme di vita nuova per tutti.
Questo Bambino – l’angelo Gabriele lo ha annunziato, i Profeti lo hanno cantato – ha un destino di gloria: sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo, sarà il Re di giustizia e di Pace.
La sua gloria, però, passa attraverso la Croce, cresce lungo un cammino di croce che inizia subito: la vita nasce nel pianto e si conclude solitamente nel gemito, con una lacrima, l’ultima lacrima. Travaglio di un nuovo parto. Il pianto, il gemito, la lacrima, in cui la vita nasce e si spegne sulla terra, non è altro che nascita alla vita del Cielo.
Mirabilmente Dio ci ha creato, in modo più mirabile ci ha redento, perché attraverso l’esistenza nel tempo noi veniamo alla luce nell’eternità, come figli di Dio nel Figlio diletto, venuto a nascere tra noi per farci rinascere in Lui.
Poteva l’uomo, «nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudini» (Gb 14,1) immaginare qualcosa di simile per sé?
Stupore per il miracolo che accade nel silenzio di una notte, in un angolo oscuro della terra!
Stupore e vigile attesa, perché un seme, un piccolo seme, è stato gettato nella nostra terra…
Chi se ne accorge?
Ci sono, oggi, pastori che vegliano nella notte? Ci sono padri, ci sono madri attenti a proteggere la fragile vita messa tra le loro braccia?
Ci sono cercatori di Dio, capaci di leggere i segni dei tempi e di intraprendere il viaggio più lungo, per arrivare ad adorare Dio in un Bambino, e davanti a Lui deporre tutti i loro beni, se stessi?
Ma non poniamo queste domande al plurale. Ciascuno di noi è chiamato a vivere in prima persona il Santo Natale. Allora sarà Natale per tutti.
Ho trovato su un libretto ricevuto in dono proprio in questi giorni come augurio natalizio una significativa poesia di un poeta cinese, Ai Qing: La mangiatoia. È stata scritta in anni difficili, tempestosi per la Cina; i versi si fanno eco di quella situazione: dove Cristo oggi ancora si incarna. La natività di Cristo non tanto è rievocata, quanto rivissuta. Sono versi scritti nel 1936, ma potrebbero portare la data di quest’anno, come luogo tante città e nazioni, come firma molte firme, forse anche la nostra.
Scende, fitta, la neve. Ma il cuore non gioisce, non può gioire, del suo candore, perché «il cielo è così buio».
Un pesante grigiore tutto avvolge. Ognuno avanza chiuso nella sua solitudine. Da una mangiatoia giungono voci di pianto, eco di lacrime…
Doloroso stupore: qualcuno passa oltre la mangiatoia…
Passa oltre sdegnoso, passa oltre lanciando sguardi obliqui, passa oltre formulando giudizi sferzanti, come quel vento gelido che penetra tra le fessure della povera capanna, incurante del neonato Bambino…
Qualcuno passa oltre la mangiatoia: è il martellante ritornello che percorre l’intero componimento, attraversa l’intera storia, tutto il globo terrestre.
Sì, anche oggi, si passa facilmente oltre la mangiatoia dove c’è quel Bambino disarmato nella sua povertà…
Si passa oltre. Ognuno si chieda perché non sa fermarsi…
In questi crudi versi vediamo la situazione di tante madri che oggi danno la vita nella desolazione, nel dolore, nell’estraneità. Contempliamo in silenzio tanti bambini che vengono al mondo per lavare con le loro lacrime, con la loro innocente sofferenza, la bruttura dell’umano peccato.
Qualcuno passa oltre la mangiatoia…
E non scorge il miracolo che là sta avvenendo:
Ascoltate i teneri vagiti…
la mangiatoia mai prima fiorita
ha cosparso di splendidi fiori
la piccola vita
dà nuova forza alla madre
nella paglia di riso quattro membra si muovono.
Il legno della mangiatoia, figura della nuda Croce, non è senza la gratuita bellezza dei fiori, annunzio del giardino di Pasqua.
È venuto quel Bambino in un mondo “straniero”, ma per farlo fratello; è venuto in un mondo di peccato, ma per portare il perdono; è venuto in un mondo angosciato, ma per far rifiorire la speranza e l’amore.
Si china su di Lui la Madre, lo stringe tra le sue braccia.
E il cammino prosegue oltre la mangiatoia, in silenzio.
Inizia così il pellegrinaggio dell’umanità, il suo ritorno alla casa del Padre, giorno dopo giorno, anno dopo anno altri si aggiungono, e non passano oltre, ma seguono quel Bambino divenuto ormai adulto. E da Betlemme a Gerusalemme Maria è là, Madre di tutti, presso ogni grotta dove un bambino piange, presso ogni Croce dove l’uomo soffre e muore, presso la cella dove il nostro poeta giace prigioniero.
Scende silenziosa la neve…
«Dayanhe, oggi guardo venire la neve e mi ricordo di te…», si ricorda della sua infanzia di figlio di proprietari terrieri. Manca il calore della casa, mancano i giochi dei bambini, manca il volto del padre, manca la tenera presenza della madre…
Quale vuoto! Quale orfanezza! Quale nascosto pianto! Dio ascolta questo grido di preghiera:
«Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua madre» (Gv 19,26-27).
Dayanhe voleva tanto bene al suo figlio di latte…,
a quel figlio non suo, che nutriva con il suo latte,
che con i suoi figli cresceva, amato fratello.
Dayanhe, oggi il tuo figlio di latte scrive un’ode dedicata a te, dedicata alle balie come Dayanhe che mi amava come suo figlio. Dayanhe,
io sono tuo figlio
cresciuto con il tuo latte,
io ti rispetto
ti amo.
Com’è bello! “Dayanhe” è il nome delle donne che sono madri con quella maternità di chi ama e si dona per nutrire e far crescere la vita negli altri.
Madre è la Chiesa, nutrice di santi.
Madre è ogni anima che, alimentandosi alla sorgente della vita, la riversa spiritualmente nella preghiera, nell’offerta di sé, nel sacrificio quotidiano, perché l’amore vero si esprime così.
Natale è la festa della maternità. Possiamo congratularci per questa vita che esplode in noi e farci davvero gli auguri, perché il Signore ci dia di essere sempre più feconde nella grazia, e molti possano chiamarci “madri” e testimoniare davanti a Dio che abbiamo dato loro il nostro latte, la nostra preghiera, la nostra carità, che li abbiamo nutriti giorno dopo giorno, per farli crescere come figli di Dio, chiamati alla gloria.